La Meditazione Tonglen: L'antica Pratica Tibetana del Dare e Prendere" per Sviluppare la Compassione e la Gentilezza Amorevole
- Giorgio Scalzotto
- 21 nov 2024
- Tempo di lettura: 14 min
Tairon Sossi Ritossa
Questo lavoro, sulla meditazione Tonglen, inizia dall’introdurre a grandi linee il buddhismo
Mahayana della tradizione tibetana, il sentiero per diventare un bodhisattva e le pratiche per
generare bodhicitta attraverso l’addestramento mentale. Spiega questi e altri termini della lingua
sanscrita, la cui comprensione è necessaria per poter comprendere la motivazione che spinge a
praticare il Tonglen. Il corpo centrale dello scritto descrive le varie fasi di questa pratica. Infine
l’ultima parte racconta gli effetti che ha avuto su di me il conoscere, approfondire e praticare il
Tonglen.

Era il 2019 quando, durante uno dei periodi difficili della mia vita, mi convinsi a lasciarmi tutto alle
spalle tranne uno zaino che portai con me in giro per l’India. Così decisi di partecipare a un ritiro
silenzioso di dieci giorni in un monastero buddhista. Ero nel nord del paese, a McLeod Ganj, poco
sopra Dharamshala, nello stato dell’Himachal Pradesh, sulle montagne dell’Himalaya. Non so bene
il perché lo feci ma so che quel corso di introduzione al buddhismo e meditazione cambiò
radicalmente il corso della mia vita. Quei dieci giorni in silenzio, tra sessioni di meditazioni di varia
natura e insegnamenti da parte della Ven. Lhundup Jamyang, una monaca olandese, dettero inizio a un cambiamento che si protrae ancora oggi e che, passo dopo passo, mi portò a iscrivermi al master in Meditazione e Neuroscienze dell’Università di Udine. Ciò che da allora cambiò maggiormente fu il mio punto di vista su me stesso, sulle cose da cui sono circondato e sugli altri.
Fu durante quel ritiro che ebbi la fortuna di conoscere un’antica pratica meditativa buddhista molto avanzata della tradizione tibetana e considerata fondamentale nel Lo-Jong (addestramento mentale): la meditazione Tonglen, altrimenti detta la pratica del dare e prendere. Si tratta, come vedremo approfonditamente nel testo, di immaginare di prendere su sé stessi le sofferenze di altre persone e di ricambiare inviando invece felicità. Io mi faccio carico delle afflizioni di altre persone e, simultaneamente, esprimo il desiderio che loro siano felici. Per me fu uno shock: proprio nel periodo in cui avevo finalmente capito che la mia infelicità perenne e protratta negli anni era responsabilità di altre persone, ritrovarmi a immaginare di prendere su di me le loro sofferenze mentre li visualizzavo felici, mi fece cadere il terreno sotto i piedi. Invece di rifiutare quella pratica, qualcosa mi colpì nel profondo e con il tempo sviluppai un’intensa curiosità per il Tonglen e per ciò che gli gravita attorno. Anche grazie a questa pratica, realizzai che, se da un lato gli altri, con i loro comportamenti, avevano impattato in modo importante sulle mie esperienze, in particolar modo da bambino, la causa principale della mia insoddisfazione era il modo in cui vivevo la mia vita. Capii più tardi che le mie scelte erano figlie di uno dei tre veleni principali del buddhismo: l’ignoranza, non intesa come mancanza di conoscenza ma come errata visione delle cose.
Purtroppo, in occidente, non conosciamo e non pratichiamo molto questa meditazione, trattandosi di una pratica specifica del buddhismo tibetano che si incontra se si intraprende la via per diventare Bodhisattva, cioè colui che aspira all’illuminazione per essere di beneficio a tutti gli esseri senzienti. Possiamo leggerne a riguardo grazie ai lavori dei maggiori rappresentanti della letteratura buddhista a livello mondiale come Alan Wallace, Pema Chödrön, Tenzin Palmo, Dzigar Kongtrul Rinpoche e Matthieu Ricard.

1. Il buddhismo
Parlando di buddhismo facciamo riferimento a un’ampia gamma di concetti. Indipendentemente da come lo interpretiamo (religione, filosofia, stile di vita), sappiamo che l’obiettivo della pratica buddhista è raggiungere l’illuminazione o più specificatamente lo stato di Buddha, cioè colui che ha raggiunto Bodhi. I due termini della lingua sanscrita indicano rispettivamente “colui che ha raggiunto il risveglio” e “lo stato del risveglio”. Per il buddhismo, in sintesi, l’illuminazione consiste nell’aprire gli occhi e nel vedere la realtà per come è veramente e non per come ci appare. Ciò presuppone che noi siamo esseri dormienti, afflitti appunto da ignoranza. Vediamo la realtà attraverso un filtro, creato dalla nostra mente ed è questo che causa le nostre sofferenze.
Ai fini di contestualizzare la pratica del Tonglen, ci basterà sapere che per la tradizione del buddhismo tibetano esiste un sentiero graduale, chiamato Lam Rim, e che trova le sue origini nel commentario di Lama Tsongkapa titolato Lam Rim Chen-Mo sul testo radice del maestro indiano Atisha La lampada sul sentiero verso l’illuminazione. Esso ci fornisce una guida per intraprendere la via che porta al Nirvana. Il sentiero graduale ha come obiettivo quello di purificare la mente dalle sue afflizioni negative in modo che le cause della sofferenza non vengano più alimentate dalla visione distorta della realtà. È per questo motivo che esiste, nella tradizione tibetana, una pratica chiamata Lo-Jong, cioè addestramento mentale. Qui troviamo indicazioni pratiche per sviluppare bodhicitta, che possiamo tradurre dal sanscrito come “mente del risveglio” o “mente illuminata”. Per semplicità si dice che bodhicitta è la mente del bodhisattva ma è anche inteso come l’amore incondizionato verso tutti gli esseri senzienti e il desiderio che essi siano liberi dalla sofferenza e dalle sue cause. Infatti le fondamenta della pratica del Lo-Jong sono l’amore e la compassione. Nello stadio avanzato del Lam Rim, all’interno del Lo-Jong, troviamo una pratica fondamentale per sviluppare la compassione e la gentilezza, chiamata “scambiare sé stessi con gli altri”, di cui la meditazione Tonglen è il fulcro principale.
2. Aprire il terreno alla pratica. I quattro incommensurabili
Prima di entrare nel dettaglio della meditazione Tonglen dobbiamo conoscere, e possibilmente, coltivare nella vita di tutti i giorni i 4 incommensurabili attraverso le nostre azioni. Essi ci vengono in aiuto per preparare il terreno a sviluppare la vera motivazione di un bodhisattva, che è totalmente incondizionata e priva di qualsiasi ricerca di beneficio personale. Come scrive Alan Wallace (2002 p.114): “il frutto del bodhicitta autentico nasce solo nel terreno fertile della precedente coltivazione dei quattro incommensurabili”.
Passiamo velocemente in rassegna i quattro concetti chiave la cui comprensione è fondamentale per coltivare bodhicitta:
- Maitri o più conosciuto come metta (in lingua Pali): è l’amore altruistico, anche chiamato amorevole gentilezza. Il sentimento di amore, nel buddhismo tibetano, significa volere la felicità altrui. Per fare degli esempi, l’amorevole gentilezza è quando lasciamo il posto a sedere ad un’anziana signora sull’autobus o quando soccorriamo qualcuno bisognoso di aiuto. Insomma, le azioni ma anche le parole o i pensieri che facciamo o generiamo in funzione del beneficio di altre persone. Tutto ciò è maitri ma c’è anche un altro aspetto: la gratitudine. Amore in tal senso come espressione della gratitudine per tutto ciò che abbiamo nella nostra vita, siano cose o persone. La gratitudine è un sentimento fondamentale per contrastare dukkha, cioè l’insoddisfazione. Come scrive G. Gotto nel suo libro sul buddhismo (2023, p.263), “chi è grato per ciò che ha, non soffre per ciò che non ha”.
- Karuna: compassione o amore compassionevole. È la consapevolezza che la sofferenza che sperimento in prima persona, riguarda tutti quanti. Nel buddhismo il significato della parola compassione sta nella mia volontà che un’altra persona sia libera dalla sofferenza. Se sono mosso da questo sentimento, cercherò di placare, con pensieri, parole o azioni, le afflizioni altrui. Di karuna parleremo più approfonditamente più avanti in quanto fondamentale per la pratica del Tonglen.
- Upeksha: equanimità, un altro sentimento molto importante anche ai fini della pratica meditativa oggetto di questo lavoro. In breve, possiamo definirla come la convinzione che tutti gli esseri senzienti siano sullo stesso piano e abbiano la stessa importanza, me compreso. Solo realizzando l’equanimità riuscirò a considerare la sofferenza e la felicità altrui importanti quanto le mie.
- Mudita: la gioia compartecipe. Se realizzo maitri. karuna e upeksha posso comprendere la felicità che nasce quando qualcun altro è felice. Vuol dire riuscire a gioire della gioia altrui. La nostra società basata sulla produttività e sulla competizione, ci porta di solito a invidiare i successi degli altri ma anche questo secondo il buddhismo è controproducente per noi stessi e per la nostra felicità ma non ci verrà difficile riportare alla memoria un episodio in cui siamo stati felici per un successo raggiunto da qualche nostro caro, da qualcuno che amavamo.

3. Bodhicitta assoluto e bodhicitta relativo
Per il buddhismo tibetano un aspirante Bodhisattva, deve coltivare i due aspetti fondamentali che, completandosi e sostenendosi l’un l’altro, sono considerati i pilastri dell’illuminazione: il bodhicitta assoluto e il bodhicitta relativo. Il primo, per citare Wallace (1995, p.24),”esplora la natura della realtà per raggiungere la chiara visione della vacuità” e conduce quindi alla realizzazione di Sunyata, e al conseguente sviluppo di Prajna, cioè la saggezza. Il bodhicitta relativo invece mira a sviluppare la compassione e la benevolenza per gli altri esseri, attraverso pratiche come il Tonglen. Nell’addestramento mentale, il primo viene inteso come saggezza e il secondo come metodo. Questi due aspetti sono due ali che servono in egual misura per poter procedere sul sentiero dell’illuminazione.
È per questo che, per praticare il bodhicitta relativo e, più nello specifico, il Tonglen bisogna coltivare anche la saggezza che nasce dall’introspezione e che, a sua volta, è possibile solo familiarizzando con le pratiche di Samatha e di Vipasyana, utili rispettivamente a stabilizzare la mente e indagare la natura dei fenomeni. Solo così si riuscirà a realizzare la vacuità, condizione necessaria appunto per non essere travolti dalle sofferenze di cui ci facciamo carico attraverso il Tonglen.
4. La meditazione Tonglen: lo scopo e la motivazione
Iniziando la parte descrittiva della pratica, non posso non dire che, nel tempo, ho letto e sperimentato vari modi di eseguirla. Di certo il senso della meditazione, rimane sempre lo stesso, indipendentemente da come essa venga svolta. Lo leggiamo in modo eccepibile nelle righe del libro Se il mondo ti crolla addosso di Pema Chödrön (2017) il Tonglen mira a capovolgere le logica abituale con la quale vogliamo evitare il dolore e ricercare il piacere. Come abbiamo già accennato infatti, lo scopo di questa pratica è quello di immaginare che tutte le sofferenze, le paure, le insoddisfazioni di una, o più persone escano dal loro corpo ed entrino nel cuore del meditatore che, invece, invierà loro tutta la felicità, le gioie, le realizzazioni che riesce a provare e immaginare.
Se praticata costantemente, nel nostro cuore sorgerà un sentimento di autentica compassione per le sofferenze degli altri esseri senzienti, karuna appunto, e molto probabilmente il nostro punto di vista cambierà. Non saremo più noi stessi, con le nostre sofferenze e i nostri drammi personali a essere al “centro del mondo” o quantomeno costantemente al centro della nostra attenzione ma la nostra visione egoica, forte e radicata nel tempo, si scioglierà come neve al sole. Realizzeremo quindi che tutti gli esseri senzienti vorrebbero raggiungere la felicità ed evitare la sofferenza proprio come noi. Vedere questo, realizzarlo e assimilarlo, per il buddhismo tibetano, è ciò che può far scaturire la scintilla dell’amore, cioè “voglio che tu sia felice”, e della compassione, cioè “voglio che tu sia libero dalla sofferenza”. Cominciare a preoccuparmi della felicità altrui, più che della mia, è la base fondamentale senza la quale la coltivazione del bodhicitta relativo non può avvenire. Per il buddhismo tibetano la via da intraprendere per diventare bodhisattva, inizia solo con questa sana motivazione che mette gli altri al centro della nostra attenzione. Se dal cuore non emerge la sincera volontà che gli altri siano felici e liberi dalla sofferenza, molto probabilmente non raggiungeremo lo “spirito del risveglio”. È proprio qui che entra in gioco il Tonglen come strumento fondamentale per riuscire in questo processo.
5. La sequenza e le varie tecniche
La fase di preparazione alla meditazione è il primo, lampante, esempio del fatto che molti autori adottano prospettive diverse. Qualche maestro, come per esempio Rob Nairn, (2004) invita a iniziare la pratica immaginando che il corpo si rilassi, accompagnato da una calda luce bianca che lo riempie dall’interno e poi trasborda all’esterno e finisce per ricoprirlo. Molto diffusa è anche la variante che prevede di iniziare con uno “spiraglio sulla bodhicitta assoluta”. Pema Chödrön (2023 p.168), per esempio, è tra questi e ci invita a “far riposare la mente in uno stato di apertura e immobilità”.
Alan Wallace (2002) e Matthieu Ricard (2009) invece, suggeriscono di approcciarsi al Tonglen visualizzando nostra madre dal momento in cui ci ha partorito, ai primi momenti della nostra vita dove si prendeva cura di noi. È importante sottolineare che nel buddhismo di stampo tibetano, il sentimento che una madre prova nei confronti di suo figlio nei primi istanti della sua vita viene spesso usato come metafora per indicare l’amore nella sua forma più pura e incondizionata. Così, in varie meditazioni, questa immagine viene richiamata per far sì che nel cuore emergano spontaneamente queste qualità genuine e pure di amorevole gentilezza.
Tuttavia può succedere che qualcuno non abbia mai conosciuto la sua vera madre o che non abbia un buon rapporto con essa o che, peggio ancora, abbia subito abusi dalla figura materna. Su queste possibilità Wallace (1995) insiste molto, incoraggiandoci a provare a vedere le sofferenze dietro certi gesti e provando a far emergere comunque un sentimento di gratitudine nei suoi confronti, solo per il fatto di averci prima portato in grembo e poi messi al mondo. L’autore, molto saggiamente, ci invita a tralasciare questo primo passaggio qualora l’immaginare nostra madre non susciti emozioni benevole e a iniziare magari, immaginando un amico o una persona amata. Altri maestri ancora, ci invitano a cominciare proprio da noi stessi, passaggio che, personalmente, ritengo fondamentale. Se prima non abbiamo compassione di noi, delle nostre sofferenze, degli sforzi che abbiamo sempre fatto per cercare la felicità, allora sarà difficile riuscire a farlo con le altre persone.
Se scegliamo quest’ultima opzione, potremmo richiamare alla memoria e immaginare tutti i momenti veramente difficili che abbiamo vissuto, i momenti in cui ci siamo sentiti sopraffatti, soli, tristi, o in cui avevamo paura. Se invece abbiamo scelto di iniziare da nostra madre o da una persona che ci sta particolarmente a cuore, possiamo allo stesso modo, sforzarci di immaginare le difficoltà che ha vissuto, anche quelle che non conosciamo. È qui che comincia la fase del prendere: dobbiamo immaginare che da quella persona cominci a levarsi un leggero fumo nero. Quando riusciamo a visualizzarlo, possiamo provare a immaginare, tramite l’inspirazione, che si allontani da lei ed entri nel nostro corpo attraverso le narici. Al suo passaggio in questa zona possiamo percepirne le sue qualità: è un fumo caldo, pesante, inquinato, come se stessimo respirando l’aria annebbiata di una metropoli nell’orario di punta. È in questa fase che mentalmente dobbiamo pronunciare queste parole: “che tu possa essere libero/a dalla sofferenza e dalle sua cause” e facendo ciò possiamo notare come la persona in questione si senta alleggerita. La possiamo visualizzare rilassata, calma, in pace, mentre le afflizioni che la colpivano e che percepivamo nitide fino a poco fa, si dissolvono.
Procediamo nella meditazione e tocchiamo uno dei punti per me fondamentali: dove va a finire quel fumo nero? Tutti concordano che il punto di arrivo del fumo inquinato che entra in noi è il centro del nostro cuore. In alcune versioni, che passano direttamente alla fase del “dare”, viene tralasciato questo punto che per me, invece, rappresenta il “perno” della meditazione. Tutte le varianti comunque fanno riferimento a un gioiello incastonato nel nostro cuore, dove sono racchiuse tutte le sue qualità più pure: l’amore, la gioia, la felicità, la gratitudine. Le afflizioni che causano le nostre sofferenze riescono infatti ad intaccare la mente ma non l’essenza del cuore, che invece rimane pura. È proprio questo diamante che splende di luce bianca che ha il potere di purificare all’istante il fumo nero.

Un’altra versione molto diffusa e che, ritengo particolarmente interessante, è l’immagine di una pietra dura e scura al posto del nostro cuore che rappresenta il nostro ego che racchiude e imprigiona come un forziere, le nostre qualità profonde di cui abbiamo parlato prima. Si sa che l’ego per il buddhismo è ciò che noi pensiamo di essere, l’immagine che ci siamo costruiti di noi stessi che vuole continuare a vivere e a rafforzarsi dentro di noi. Ciò non fa altro che schiacciare e rimpicciolire la nostra vera natura che, lo ricordiamo, secondo i buddhisti è talmente tanto spaziosa e vasta da essere infinita come il cielo. L’ego, racchiudendo tutto ciò in uno spazio limitato, non ci permette quindi di sprigionare tutte le nostre qualità primordiali come l’amore incondizionato.
Per tornare al Tonglen, quindi, immaginiamo questo fumo nero venga risucchiato all’interno di questa pietra scura, che appunto è il nostro ego. L’accumulo di questa aria polverosa e inquinata fa sgretolare questo macigno dall’interno, come un contenitore troppo saturo che non riesce più a contenere ciò che sta lievitando al suo interno. Così la luce bianca può finalmente liberarsi dalle sue catene e fuoriuscire dal cuore. È l’amore che vince sull’ego. Qui si potrebbero spendere molte parole per spiegare questo passaggio: è proprio sottomettendo il nostro ego che non vorrebbe soffrire e vorrebbe sempre ricercare la felicità che possiamo veramente sviluppare la compassione per gli altri. Se l’ego ci porta sempre a cercare di evitare la sofferenza, con il Tonglen ci alleniamo a cortocircuitare questo meccanismo proprio entrando volontariamente in contatto non solo con le nostre afflizioni ma anche con quelle degli altri. Come dice Pema Chödrön, con questa pratica ribaltiamo la relazione convenzionale con il dolore.
Dopo questo passaggio, entriamo nel vivo della seconda fase: il dare. Immaginiamo quindi che questa luce pura e bianca prodotta da questo gioiello incastonato nel nostro cuore cominci ad espandersi e a fluire dall’interno di noi verso l’esterno tramite le narici, attraverso l’espirazione, andando a raggiungere la persona che stiamo visualizzando di fronte a noi. Quest’ultima verrà quindi accerchiata da questo alone candido e mentre succede questo noi pronunciamo mentalmente queste parole: “che tu possa essere felice”, immaginando di donare, in modo condizionato, tutte le soddisfazioni, le gioie e tutto ciò che di bello abbiamo vissuto e che riusciamo a immaginare di poter vivere. Ecco che possiamo vedere la persona in questione subito serena, contenta, gioiosa, soddisfatta e sorridente. Possiamo procedere per qualche ciclo di respirazione in questo modo e, quando riusciamo a percepire che un senso di felicità ha veramente influenzato colui che stiamo immaginando, possiamo lasciarla andare e visualizzare una persona a noi neutra, con la quale non abbiamo rapporti profondi, che conosciamo appena e ripetiamo, allo stesso modo, il prendere e il dare. Quando sentiamo che abbiamo praticato a sufficienza anche per questo soggetto, arriva la parte più difficile: pratichiamo il Tonglen per una persona che ci è nemica, che riteniamo ci abbia fatto un torto o per la quale nutriamo sentimenti ostili. Impareremo con il tempo a capire che il nostro giudizio è solamente un prodotto del nostro ego, inconsistente in quanto illusorio, privo di alcun fondamento e, soprattutto, dannoso per noi stessi.
Esistono delle varianti anche sulle tempistiche in cui praticare il prendere e il dare. La più diffusa, quella che abbiamo descritto è farlo ad ogni inspirazione e ad ogni espirazione. Personalmente però ritengo che, soprattutto all’inizio, sia particolarmente difficile immaginare il fumo, l’altra persona e contemporaneamente pronunciare la frase mentalmente, nel tempo di un’ispirazione, poi immaginare la luce nel breve attimo di pausa e rifare la stessa cosa con l’espirazione. Esistono perciò delle varianti che prevedono di concentrarsi per alcuni cicli solo sul “prendere” ad ogni ispirazione e poi solo sul “dare” ad ogni espirazione. Un’ulteriore variante, secondo me molto utile per chi è alle prime armi, è concentrarsi per qualche minuto solo sulla fase del prendere, indipendentemente dalla fase respiratoria e poi concentrarsi per qualche minuto sul dare, sempre disinteressandosi del ciclo respiratorio.
6. Considerazioni personali
Per ciò che mi riguarda posso testimoniare il cambiamento radicale, seppur graduale, che avviene quando si pratica questa meditazione. Personalmente, ritengo si tratti di un’esperienza che, se praticata costantemente nel tempo, va a sradicare nel profondo le nostre convinzioni, i nostri punti di vista, i nostri pensieri. Nel mio caso, per esempio, la rabbia che avevo accumulato dentro di me a causa, pensavo, delle azioni di altre persone, sta lasciando pian piano il posto a una profonda comprensione dei motivi che le hanno portate a compiere determinate azioni e alle sofferenze che stanno alla base delle loro scelte. Quando vedo tutto ciò la rabbia non ha modo di nascere perché riconosco nell’altro le stesse difficoltà che ho vissuto in prima persona e adesso so che gli altri, come me, cercano semplicemente di evitarle. In questo senso il Tonglen ha fatto sorgere in me sentimenti come compassione ed equanimità.
Contemporaneamente però sto sviluppando una crescente sensibilità ai problemi e alle sofferenze degli altri. Parlando con le altre persone, mi accorgo di quanto i loro pensieri, le loro parole appunto e le loro azioni siano guidate da un forte senso di rivalsa verso una sofferenza che li attanaglia e dalla quale cercano di liberarsi. Più immagino ciò che le affligge praticando questa meditazione, più sviluppo un senso di empatia verso di loro, tanto da arrivare al punto di considerare i loro problemi come se fossero miei. In questo senso ho sempre cercato di approfondire il momento in cui il fumo nero si dissolve nella luce bianca, perché, se questo passaggio viene saltato o se non vi è alla base della pratica una forte saggezza e una salda comprensione della vacuità dei fenomeni, il rischio concreto è, secondo me, quello di farsi travolgere dall’altrui sofferenza. Questo concetto ha un’importanza enorme nella letteratura buddhista. Sua Santità il Dalai Lama, tra i tanti autori che lo trattano, parla di riuscire, attraverso lo sviluppo della saggezza, a mettersi nei panni dell’altra persona mantenendo però la giusta distanza che ci permette di non essere sopraffatti da ciò che essa sta vivendo.
Per concludere quindi, pur riconoscendo il valore inestimabile che questa pratica ha nello sviluppo di certi valori come la compassione e la gentilezza amorevole, non posso esimermi dal raccomandare di praticare il Tonglen sotto la guida esperta di un buon maestro che possa davvero insegnarci come neutralizzare il fumo nero che inspiriamo, oppure in contemporanea ad altre pratiche buddhiste che ci permettono di intravedere, comprendere e poi rendere salda in noi la visione della vacuità. Insomma, si può dire che il Tonglen sia una pratica per gli altri ma non per tutti.

Bibliografia
Gotto, G. (2023). Profondo come il mare, leggero come il cielo. Mondadori, Milano.
Nairn, R. (2004). Vivere, sognare, morire. Ubaldini, Roma.
Chödrön, P. (2017). Se il mondo ti crolla addosso. Feltrinelli, Milano.
Chödrön, P. (2023). Come viviamo, così moriamo. Realizzare che ogni fine è un nuovo inizio. Ubiliber, Roma.
Ricard, M. (2009). L’arte della meditazione. Sperling & Kupfer, Milano.
Wallace, A. (2002). Il buddhismo come atteggiamento mentale. Ubaldini, Roma.
Wallace, A. (1995). Passi dalla solitudine. Ubaldini, Roma.
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